Il tema del fine vita è particolarmente sentito nella Regione Marche, dove tre persone hanno chiesto ufficialmente alle più alte cariche dello Stato di poter morire con dignità nell’ultimo tratto di una vita segnata da gravi malattie e situazioni estremamente invalidanti. Uno di loro, Fabio, si è spento pochi giorni fa tramite sedazione profonda. Su questo fronte, delicato e ricco di spigoli, tra etica e burocrazia, decide di intervenire la collega Anna Fata, già curatrice della “Rubrica Lune-dì benessere” in onda su su èTV.
La Dott.sa Fata ha raccolto con grande professionalità e sensibilità una serie di testimonianze, interventi e documenti che possano aiutare il pubblico a conoscere meglio il tema, a distinguere ad esempio tra eutanasia e suicidio assistito, a conoscere le norme ma anche le motivazioni di chi si trovi a decidere un passo così dirimente. Ecco la seconda puntata.
Come affrontare i peggiori tabù del mondo: Malattia, sofferenza, morte
Intervista a Marina Sozzi direttore di SAMCO
di Anna Fata
In un’epoca progressista, scientista, veloce, per certi versi superficiale, incapace di dare un senso e un valore alla immensa complessità che attiene al vivere e all’esistere, siamo più che mai in fuga da quelli che sembrano essere sempre più gli intramontabili tabù di sempre: la malattia, la sofferenza, la morte.
Apparenza, egocentrismo, culto dell’immagine, del corpo, dello stile, condotta di vita basata sulla volontà, la forza, la potenza, la prevaricazione, il successo, l’eterna giovinezza, la prestanza fisica, intellettuale, lo stile vincente sotto ogni punto di vista, resta poco o affatto spazio per chi fatica ad arrancare dietro questi ideali e stili esistenziali, per non coincidenza di valori, svantaggio fisico, intellettuale o emotivo, fragilità del corpo.
Non c’è più possibilità per fermarsi, anche solo un istante, per prendersi veramente cura di sé, nell’animo, prima ancora che nel corpo, per ripensare i propri percorsi di vita e per concedere uno sguardo, e, laddove possibile, un aiuto, amorevole, compassionevole, non pietistico, rispettoso alle nostre molteplici fragilità.
Perché tutti, sotto sotto, ne abbiamo e ne avremo sempre. Anche se ci possiamo illudere che non ci capiterà mai di ammalarci, in modo acuto o cronico, invalidante, o progressivo, e, peggio, di invecchiare, di giorno in giorno, e, magari alla fine anche inevitabilmente di morire.
Questo vale per noi, per il sistema di vita che ci siamo alacremente costruiti, ma anche per le persone care che ci circondando e a cui sosteniamo di tenere tanto. Anche perché osservare la loro sofferenza e, talvolta, la loro dipartita funge anche da specchio di quello che, magari, un giorno, anche noi saremo destinati ad affrontare. E così come fuggiamo da noi stessi, tendiamo inevitabilmente anche a scappare dagli altri, tanto ci è insostenibile il dolore associato a tali scene.
Di questo e molto altro abbiamo parlato con Marina Sozzi, direttrice dell’associazione SAMCO, attiva nel settore delle cure palliative.
Marina Sozzi è filosofa, tanatologa, scrittrice, ha insegnato presso l’Università degli Studi di Torino, è stata direttrice della Fondazione Fabretti, che si dedica allo studio dei temi della morte e del morire nella società contemporanea.
Dal 2012 tiene un blog dal titolo “Si può dire morte”. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo: “Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia” (2009), “Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita” (2014), “Non sono il mio tumore. Curarsi il cancro in Italia” (2019)
D: Malattia, invalidità, sofferenza, fragilità, morte sono nella nostra società parole e processi esistenziali al limite dell’indicibile. Restano dei tabù, fonte di disagio, colpa, imbarazzo, vergogna, una sorta di marchio infamante che tocca qualcuno di noi che ridefinisce la sua identità in modo temporaneo o definitivo, quasi come una infamia, frutto di cattiva volontà, imperizia, punizione, o destino crudele. Quale spazio, tempo, senso, valore possono avere oggi questi aspetti di vita nella nostra esistenza individuale, sociale, culturale?
R: È una domanda molto vasta. Dal punto di vista individuale, ognuno può provare a cercare la propria strada per fare spazio alla propria fragilità, senza odiarla, senza provare vergogna, senza cercare di occultarla. È un percorso di crescita che non è mai semplice, perché intorno a noi non troviamo stimoli che ci aiutino a intraprendere questo cammino.
Eppure, qualcosa si muove: nel corso della pandemia molti hanno finalmente trovato il tempo per rimettere a posto le proprie priorità, e comprendere che la cifra distintiva dell’umano è la comune vulnerabilità.
E, d’altra parte, solo quando ho riconosciuto la mia vulnerabilità posso accogliere quella degli altri, senza trarre profitto dalla loro debolezza, ma entrando in un’attitudine di attenzione e di cura. E questo passaggio, sociale e culturale al contempo, è un passaggio di civiltà e di maturazione collettiva, che non sarà né semplice né veloce. Anche qualora si voglia essere ottimisti, pensandolo realizzabile nel futuro.
D: Se e in che modo si potrebbe creare una nuova cultura sociale e individuale, medico, sanitario, legale, politico, economico in merito a queste sfere di vita della malattia, della inabilità, della invalidità, della morte?
R: Non possiamo che partire da noi stessi, dal nostro piccolo, perché è ciò su cui possiamo agire. Non si cambia il mondo senza cambiare noi stessi, come diceva Gandhi, e come ha ricordato nel suo ultimo libro, Possiamo salvare il mondo prima di cena, un autore molto interessante come Jonathan Safran Foer.
Cambiare è poi un concetto vago: in che direzione occorre cambiare? Penso che sia benefico provare ad accogliere l’incertezza della vita, il rischio legato alla finitezza e alla mortalità, ad essere grati per le cose buone, a perdonare e perdonarsi, a lasciar andare un po’ il controllo e fare spazio alle paure, e entrare nel flusso della vita. Restare mobili.
D: Attualmente non solo ci occupiamo ben poco delle nostre fragilità, fisiche e interiori, ma siamo anche ben poco consapevoli e informati di quelle che sono le nostre possibilità, i diritti e i doveri, nella evenienza che ci dovessero toccare. Attualmente, se ci si dovesse ammalare, in modo acuto o cronico o, al limite, avere contezza di una morte a breve, medio termine, quali possibilità abbiamo di prepararci, prendercene cura, cautelarci, dare eventuali disposizioni per il nostro futuro?
R: Abbiamo in Italia due leggi preziose, che ci permetterebbero di affrontare la malattia inguaribile e la fine della nostra vita nel migliore dei modi, se fossero compiutamente applicate. Si tratta della legge 38/2010, che istituisce le cure palliative e le garantisce come un diritto nel nostro paese, a prescindere dalla patologia; e della legge 219/2017, che fa alcune affermazioni fondamentali, su cui vorrei soffermarmi brevemente.
In primo luogo, la legge 219 parla di consenso informato, che non è il modulo che ci mettono davanti per la firma prima di un intervento chirurgico o di un esame invasivo (e che serve sostanzialmente a proteggere il medico da conseguenze legali qualora qualcosa vada storto), ma consiste nel dovere del medico di informare il paziente sulle sue condizioni di salute, sulla diagnosi e sulla prognosi, sulle alternative terapeutiche, sui loro effetti collaterali, in modo approfondito e comprensibile.
Un altro punto fondamentale della legge è l’invito, nel contesto della relazione medico/paziente, a pianificare le cure in modo condiviso. In tal modo il paziente viene informato sulla possibile evoluzione della sua patologia, e può restare padrone delle proprie scelte. Infine, la legge 219 stabilisce che sia possibile lasciare le proprie disposizioni anticipate di trattamento (DAT), un documento in cui i cittadini possono stabilire quali trattamenti sanitari desiderino e quali respingano qualora non dovessero più essere coscienti.
Gli strumenti, quindi, non mancano per poter gestire al meglio l’esperienza di malattia. Il problema è che queste ottime leggi sono non solo poco applicate, ma molto poco note alla popolazione, e troppo poco conosciute anche dai medici.
D: Spesso la fragilità, la malattia, la morte, ancora più in concomitanza con l’età avanzata, vengono affrontate in completa dimenticanza e solitudine. Se e come affacciarsi atali processi in questa dimensione esistenziale?
R: Abbiamo una grossa questione insoluta nella nostra cultura, ed è il modo in cui ci occupiamo dei nostri anziani, e il ruolo che diamo loro in una civiltà sempre più veloce, in cui l’esperienza sembra essere inutile e il sapere venire solo dal web. La pandemia ha messo in evidenza l’inadeguatezza delle RSA, ricoveri per anziani per lo più non autosufficienti, che si sono trasformate in tristi prigioni prive di rapporti con l’esterno. Anche prima della pandemia, tuttavia, l’istituzionalizzazione era inidonea a prendersi cura dei nostri vecchi, per l’organizzazione simile a una caserma o a un ospedale, per la carenza di stimoli e di vita che, con qualche eccezione virtuosa, affetta questi luoghi.
Nel nord Europa, e anche negli Stati Uniti, modelli alternativi a questi hanno cominciato ad essere sperimentati: si tratta del cosiddetto co-housing, dove anziani e giovani condividono spazi comuni e si sostengono reciprocamente. Gli anziani possono tenere i bambini, i giovani ricambiare facendo la spesa o cucinando. Ciò che conta è il mantenimento di relazioni vitali, mentre nelle RSA i vecchi entrano in una dimensione di dimenticanza e solitudine.
D: Talvolta la disperazione dell’animo, la sofferenza del corpo, ci conducono a compiere atti di autodistruzione, più o meno eclatanti, manifesti, lenti o repentini. Non è forse un caso che le patologie psichiatriche sono in aumento e pare che saranno la vera epidemia dei prossimi decenni. Al limite, alcune di esse possono anche sfociare in tentativi di suicidio, più o meno riusciti. Se e come prevenire questi disagi estremi?
R: Questo, in tutta franchezza, è un tema di cui non mi sono occupata, e non vorrei dire cose troppo banali…
D: Talvolta non siamo noi nel corpo a soffrire, ma persone a noi molto vicine e care. Al limite, ci può capitare di essere loro accanto fino alla fine dei loro giorni e cercare di elaborare il lutto, la perdita, il dolore, il vuoto che inevitabilmente creano con la loro assenza. Oggi si tende a riempire ogni spazio, tempo per non venire a contatto col vuoto e lo scoramento, e l’angoscia che ingenerano. Ancora più nel caso della scomparsa di una persona amata. Se e come stare accanto a una persona sofferente, e, all’estremo, come affrontare un lutto?
R: Credo che ci siano tanti lutti quante persone. Impossibile quindi essere prescrittivi. Tuttavia, da una ricerca che avevo condotto con alcuni colleghi qualche anno fa, è emerso che i bisogni di chi affronta un lutto hanno qualche elemento comune: l’esigenza di narrare la morte del proprio caro e il dolore che ne è conseguito, il desiderio di avere vicini familiari e amici, di poter disporre di aiuto, di poter espletare i riti della propria tradizione, il bisogno di coltivare la memoria.
Sono esigenze che spesso si scontrano con la mentalità dominante, che invece ritiene che per superare il lutto occorra distrarsi, non pensarci, uscire, sostituire la persona amata.
Qualora si voglia invece stare vicini a qualcuno che sta affrontando la perdita di un congiunto, occorre porsi in una posizione di autentico ascolto, rinunciando a dare consigli e a consolare (“il tempo guarisce tutto”, “lui adesso sta meglio di noi”, “ha finito di soffrire” e altri, numerosi, luoghi comuni). Per aiutare chi soffre, è necessario saper entrare in una dimensione empatica, fare domande aperte, astenersi dal dare soluzioni semplicistiche. Stare, semplicemente, vicini. Ed è la cosa più difficile.
D: In una società sempre più scientista, e non necessariamente scientifica, medicalizzata, asettica, compartimentalizzata, quando l’essere umano si ammala tende a perdere la sua dignità, viene sezionato, indagato, suddiviso analiticamente nei suoi segmenti corporei che possono guastarsi, smettere di funzionare, e la classe medica si comporta di conseguenza. Freddi burocrati, meccanici del corpo da trattare con i guanti, un metodo, una burocrazia che non conosce altre regole e disconosce profondamente una anima che può dire la sua, anche molto eloquentemente, in materia. Lei in un suo libro rivendica che non siamo la nostra malattia, nella fattispecie un tumore. Sopravvivere non vuole dire necessariamente benessere. Secondo lei, come vivere, ed eventualmente sopravvivere, degnamente oggi in caso di patologia, fisica ed emotiva?
R: Anche in questo caso, ognuno trova la sua via per convivere con l’incertezza propria di una malattia cronica, con il pericolo della morte incombente, con la sofferenza del corpo e dell’anima.
Ciò su cui si può agire è l’atteggiamento dei curanti, che dovrebbero apprendere, come ho scritto in Non sono il mio tumore, ad adottare una “postura narrativa”. Ossia imparare a costruire con consapevolezza una relazione terapeutica efficace, basandosi sul comma 8 dell’articolo 1 della legge 219, che recita: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”.
D: E, soprattutto, come fare per restituire una nuova linfa alla vita alla luce della malattia, della invalidità, dell’invecchiamento, della morte, propria e altrui?
R: Anche a questa domanda è impossibile rispondere con prescrizioni che possano valere per tutti. Posso parlare di me. Dopo un percorso analitico e molta introspezione, meditazione e riflessione, sono riuscita (con alti e bassi) a convivere con il rischio di morire, e ho investito molta energia nelle relazioni con gli altri, coltivando con più attenzione le amicizie, la relazione di coppia, il rapporto con mia figlia. Non do’ più tutto per scontato, cerco di essere grata per le cose buone del vivere. Questo atteggiamento mi ha restituito l’amore per la vita e la nuova linfa di cui lei parla, quasi una nuova pienezza.
Alla fine, quando verrà la fine, so che tutto questo entrerà nel mio bilancio di vita con forza, e avrà più importanza rispetto a quello che ho realizzato sul piano lavorativo. E, anche se amo moltissimo il mio lavoro, e gli dedico molte ore della mia giornata, so anche che ciò che veramente conta è l’amore che sappiamo dare e ricevere. Lo so da quanto me lo disse mia nonna sul letto di morte. È forse l’insegnamento più prezioso che io abbia ricevuto nella mia vita.
D: Per concludere, quale messaggio desidera lasciare ai nostri lettori?
R: So che è un messaggio inutile, ma sarebbe bello se potessimo dare la giusta priorità alle cose importanti della vita anche senza ammalarci…