“Non è un Paese per fragili: come farsi amiche sensibilità e vulnerabilità”. Dalla rubrica di Anna Fata “Lunedì benessere”.
Di recente ho assistito ad una scena tra una persona disabile ed una invalida.
Ambientazione: bagni pubblici di un centro commerciale.
Protagonisti: un giovane uomo visibilmente seduto sulla sedia a rotelle, accompagnato da una donna matura, presumibilmente la madre.
Una giovane donna, che, muovendosi con le sue gambe, stava uscendo dalla toilette riservata ai disabili, mentre l’uomo era in procinto di arrivare.
L’uomo apostrofa pesantemente la donna, chiedendole in tono invadente, giudicante, inquisitorio, colpevolizzante perché si fosse avvalsa del bagno riservato ai disabili.
La donna, con un sottile velo di imbarazzo, spiega gentilmente, con calma e massimo rispetto che, considerata la sua invalidità al 100% permanente e definitiva, per diverse patologie, in tale periodo aveva anche ulteriori problemi motori tali da rendere più agevole, laddove possibile, evitare barriere architettoniche di ogni tipo e, quindi, tra le altre cose, anche avvalersi dei bagni più ampi e confortevoli dei disabili. Laddove, però, questo non comportasse disagio a chi ne aveva prioritariamente diritto, come era accaduto in quel caso.
Il bagno, infatti, era libero, nessuno era in attesa e anche l’uomo stesso non aveva dovuto attendere il suo turno, dato che la donna stava uscendo al suo arrivo.
L’uomo sempre più contrariato, indispettito, scorbutico, chiuso in se stesso, non replica alcunché e si infila velocemente e distrattamente nella toilette, senza guardare in volto la donna, seguito a breve distanza dalla sua silente accompagnatrice.
Non oso immaginare quali pensieri ed emozioni possano avere animato il cuore e la mente della giovane invalida, dietro la sua mascherina rosa, e gli occhi che sembravano trasparire un misto di commozione, stordimento, emozione, sconforto.
La scena mi ha toccata profondamente e per giorni mi si è presentata agli occhi.
E’ vero che, a rigore di legge, i criteri che definiscono e distinguono un disabile da un invalido sono diversi e non sempre né necessariamente coincidenti, ma dal canto mio ho sempre preferito sospendere ogni giudizio e dare spazio al dubbio e alla umanità.
Che esseri siamo diventati?
Siamo arrivati ad una guerra tra invalidi e disabili?
Lottiamo a chi sta più male?
A chi ha più diritto di trattamenti facilitati?
Con quali attese, pretese, imposizioni stiamo convivendo?
Dove è finita la nostra umanità?
Dal mio punto di vista, sicuramente relativo e soggettivo e come tale non assolutamente e ubiquitariamente vero-falso, giusto-ingiusto, ho sempre pensato che le forme di malattia, acuta o cronica, le invalidità, le inabilità, le fragilità, le vulnerabilità, fisiche, mentali, emotive, se comprese, accettate, elaborate, metabolizzate possono rappresentare un mezzo di crescita personale, di vicinanza, comunione, comunicazione, scambio, arricchimento, per sé stessi e nel rapporto con il prossimo.
Non sempre, però, ne facciamo tesoro.
Perché?
Dove ci porterà tutto questo?
Se e come, volendo, possiamo cambiare rotta?
Di questo e molto altro rifletteremo insieme nel seguente contributo.
* Cosa è la fragilità
* Chi è il paziente fragile
* Quando la patologia è cronica
* La fragilità come parte integrante della vita
* Quando fragile fa rima con vulnerabile
* La fragilità come espressione di sensibilità
* In che modo possiamo fare tesoro di fragilità, vulnerabilità, sensibilità
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Cosa è la fragilità
Sul fronte etimologico la fragilità si può definire come ciò che si rompe facilmente, specie se urtato, che oppone poca resistenza a dolore fisico, delicato, gracile, che fatica ad affrontare la sofferenza morale, che è emotivamente debole, che non sa resistere alle tentazioni.
In questo senso pare trasparire una lettura piuttosto limitante e negativa del termine.
Si oppone alla forza, che è quella qualità che consente di mantenere la stabilità di fronte alle avversità.
Chi è il paziente fragile
L’aggettivo “fragile” tende ad associarsi sempre più spesso al sostantivo “paziente”. Con tale unione ci si riferisce ad una persona che è vulnerabile, che ha malattie croniche complesse, comorbilità, instabilità clinica, che necessita di politerapia, con ridotta autosufficienza, con eventuali problemi che si ripercuotono sui fronti sociale e familiare.
Il cosiddetto “paziente fragile” possiede minori difese di fronte ai fattori che inducono le malattie. Tende a ripetuti aggravamenti, complicanze, scompensi multipli, più ricoveri, aumentati rischi di disabilità, invalidità, morte.
Tali condizioni rendono un organismo vulnerabile, causando la perdita parziale o totale, provvisoria o soprattutto definitiva delle funzioni di base.
In realtà, scientificamente, non esistono criteri unici, approvati, condivisi, per definire un “paziente fragile”.
Quando la patologia è cronica
Come abbiamo ampiamente discusso nella puntata dedicata ai malanni transitori e a quelli permanenti e cronici, “Anche tu sei un po’ triste quando hai il raffreddore? Come i piccoli e i grandi malanni influiscono sul benessere e la vita sociale” , una patologia si può definire cronica quando ha una complessità tale da richiedere un approccio strutturato, multidisciplinare, multi terapeutico, costantemente supervisionato, rivisto, controllato e, al bisogno, riadattato, non solo da persona a persona, ma anche per lo stesso individuo nel corso dei giorni, mesi, anni.
Le “patologie croniche” sono molto complesse, rappresentano spesso l’esito dei fattori di rischio associati alla fragilità, richiedono una gestione continua e costante. Sono sempre più frequenti, considerato l’aumento della età media della popolazione, con riduzione funzionale di organi e apparati.
In quanto tali, oltre alle terapie, tali patologie necessiterebbero di accurata ed efficace prevenzione. Tutto questo anche al fine di poter garantire una dignitosa qualità della vita, sia dei pazienti stessi, sia dei familiari che se ne prendono eventualmente cura.
La fragilità come parte integrante della vita
La fragilità, come lo stesso Eugenio Borgna, noto psichiatra e saggista, ci ricorda, fa parte della vita, ne è una condizione normale.
Essa rivela aspetti che nascondiamo anche a noi stessi. Ci svela. Tendiamo a nasconderla, ignorarla, disprezzarla. Ci ferisce con una vita che si incrina di fronte alla sofferenza, alla malattia, alla invalidità, alla inabilità, alla anzianità, alla morte.
Per questo abbiamo inventato tanti preconcetti, pregiudizi, tabù per difenderci dai pensieri disturbanti e dalle emozioni dolorose che si associano spesso a tali condizioni.
Ci ergiamo in questo processo a giudici di noi stessi e degli altri, che ci fanno eco, che fungono da specchio della nostra interiorità.
Come non vogliamo vedere né sentire tutto questo in noi stessi, non ne vogliamo sapere neppure di quello che alberga e che ci rimanda l’altro con la sua scomoda presenza e posizione.
Questo vale ancora di più quando si tratta di persone care, intime, molto vicine a noi e con cui il legame, nel bene o nel male, può essere molto intenso.
Il concetto di fragilità e tutto ciò che si associa ad esso, quindi, assume una luce sempre più negativa da cui tendiamo a prendere le debite distanze.
Mai come oggi il senso comune, dilagante, ancora più sul fronte sociale, consiste nella esortazione ad evitare persone svantaggiate, fallite, fragili, sofferenti, che non sembrano avere più diritto di esistere, a detenere voce in capitolo, anche solo con una sola presenza corporea silenziosa, ma assai eloquente, ad occupare una posizione, in questo mondo frenetico, competitivo, performante, per privilegiare, quali modelli da celebrare, esaltare, emulare, frequentare icone di successo, bellezza, giovinezza, salubrità, successo, apparente felicità.
Quando fragile fa rima con vulnerabile
In realtà, se analizziamo quanto ci racconta il Dizionario analogico, il termine “fragile” si associa anche a vulnerabile, sensibile, ipersensibile.
Vulnerabile si può definire come ciò che può essere ferito, attaccato, leso, danneggiato. Si associa ad una persona eccessivamente debole, sensibile, fragile, con estrema delicatezza emotiva, di grande intensità, che solo lentamente è in grado di tornare a uno stato emotivo di base, il che comporta sofferenza, disagio, gioia, e altre emozioni, che in genere sono molto intense, anche in situazioni poco rilevanti.
La vulnerabilità, lungi dall’essere sempre e solo uno svantaggio, è una condizione che può favorire la creatività, l’intuizione, la saggezza, l’empatia.
La fragilità come espressione di sensibilità
A sua volta la fragilità si può associare alla sensibilità, che rappresenta ciò che appare ai sensi, che è capace di sentire, percepire. E’ una qualità che si attribuisce agli organi di senso atti a sentire.
Si oppone alle facoltà intellettuali, permette la ricettività alle impressioni esterne, consente un facile accesso e suscettibilità a sentimenti, affetti, percezione accentuata di piacere e dolore, più predisposizione ad apprezzare con gratitudine, maggiore inclinazione alla commozione, più suscettibilità a fronte di minime sollecitazioni, più facoltà di essere impressionati.
Pare che la accentuata sensibilità riguardi circa il 15-20% della popolazione nel mondo.
Si tratta di persone in grado di capire profondamente se stesse. Hanno una intensa accuratezza e meticolosità di elaborazione, necessitano più tempo per elaborare i pensieri, le intuizioni, i processi emotivi.
Sono molto attente alle stimolazioni, focalizzate sui dettagli, sul sentire profondo, e tendenzialmente stressate a fronte delle sovra esposizioni.
Sono inclini ad una più accentuata empatia, alla ricettività emotiva, sembra che possiedano più recettori neurali per comprendere il linguaggio del corpo, del viso, delle emozioni, proprie e altrui.
In che modo possiamo fare tesoro di fragilità, vulnerabilità, sensibilità
Dalle definizioni finora espresse abbiamo potuto comprendere che esistono delle condizioni nella nostra esistenza che sono perfettamente fisiologiche.
Non c’è nessuna patologia sottostante a dei vissuti percettivi, emotivi, intellettivi accentuati che possono caratterizzare alcuni di noi.
Se, da un lato, questo può aiutare a rendere la vita più ricca, profonda, significativa, dall’altra la espone ad un maggiore rischio di accentuazione delle possibilità di andare incontro a malanni, fisici, psichici, mentali.
Le persone con accentuata sensibilità richiedono uno stile di vita e di relazione che rispetti la loro maggiore delicatezza. Ciascuno in questo senso è responsabile di se stesso, conoscendosi e rispettandosi di più, ma necessitano anche uno impegno sociale e culturale rinnovato che veda riportare al centro una maggiore umanità, unica, irripetibile, non giudicabile di ciascuno di noi.
Vivere nel contesto sociale, così come in quello familiare, richiede una definizione di regole, implicite ed esplicite, che vedano la tutela della propria e altrui libertà, di essere, prima ancora che di fare. A patto di non danneggiare né se stessi, né il prossimo.
Fermarsi, di tanto in tanto, ascoltare, prendersi cura di sé, della parte fragile che ciascuno di noi, da qualche parte, nel profondo detiene e, di riflesso, imparare a fare altrettanto verso l’altro, può aiutare a creare quel contesto sociale più vivibile che, forse, piacerebbe a ciascuno di noi.
Sta a noi compiere il primo passo. Non all’altro.
Mai giudicare da quello che si vede: quello che sta dietro non si può conoscere, e, in fondo, anche su quest’ultimo non abbiamo alcun diritto di giudizio. Non possiamo sapere, in verità quello che incarna realmente una persona, anche quando si vede un individuo alla apparenza leggero, felice, in salute, che cammina visibilmente con delle gambe e delle braccia integre, che non ha scritto in fronte quelli che sono i suoi malanni fisici, i suoi crucci mentali, le sue emozioni contrastanti, i suoi problemi sociali, professionali, relazionali, familiari che possono eventualmente angosciarlo.
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
Ma poi si assuma la responsabilità e i rischi e le conseguenze del suo gesto.
Ancora prima che verso l’altro, nei confronti della propria etica e coscienza.
Che, da qualche parte, magari ben nascosta, poco consapevole, possediamo e un giorno, probabilmente, ci troveremo a fare i conti.