La guerra è la nostra “nuova normalità”? Come ci abituiamo, ci assuefacciamo, diventiamo insensibili ai dolori del mondo.

Di Anna Fata, dalla rubrica Lune-dì Benessere in onda ogni lunedì alle 8:30 (prossimamente anche in versione e-book)

“A mano a mano che abbiamo progredito in questo percorso di consapevolezza, conoscenza di noi stessi, del prossimo, del mondo, grazie alle puntate di questa rubrica, ci siamo resi conti quanto potere il nostro inconscio, l’intuito, le emozioni, i sentimenti, gli affetti, le sensazioni, le percezioni possono avere sulla psiche, i pensieri, i comportamenti.

Ben poco di quello che nel nostro mondo occidentale, individualista, razionalista, logico è, in realtà, sotto il nostro diretto controllo e consapevolezza.

Possiamo, però, fare tanto per essere più consci di quello che, in realtà, nel profondo ci anima, al di là di quelle che sono in genere le illusioni, le supposizioni, le credenze, i pregiudizi che in genere prendiamo per veri e con cui interpretiamo noi stessi, gli altri, il mondo.

Quando ci guardiamo attorno tutto viene filtrato da quello che pensa la nostra mente. Difficilmente abbiamo uno sguardo neutro, ma tutto viene veicolato da strumenti soggettivi, in quanto tali individuali, non assoluti e mai senza la pretesa del vero o del giusto, come spesso crediamo che sia. E, con questa convinzione, intavoliamo infinite lotte di potere, nel piccolo, in seno alla famiglia, in ufficio, a scuola, o, nel grande, come nel caso di contesti di politica, nazionale o internazionale.

Come un nostro modo di pensare, decidere, agire può diventare una abitudine?

Come ci si può assuefare anche emotivamente persino alle scene più dolorose, drammatiche, sofferenti, faticose a cui assistiamo talvolta per la nostra o l’altrui vita?

Come, al limite, possiamo diventare emozionalmente insensibili?

E, soprattutto, perché?

Una persona cara mi esortava fin da piccola a persistere nei miei sforzi sostenendo che, alla fine, ci si abitua a tutto. Io, presa dal dubbio e dalla perplessità, riflettevo a lungo sul parere di una persona che ritenevo autorevole, di età ed esperienza di gran lunga superiore alla mia, ma, immancabilmente non potevo fare a meno di domandarmi a mia volta: “Sì, ci si abitua a tutto, o, quasi, ma, a che prezzo?”.

Oggi, forse, qualche idea in merito me la sono creata.

* Cosa è una abitudine e come si sviluppa

* Quando la routine diventa abitudine

* Se una abitudine diventa una patologia

* Come ci si adatta all’ambiente

* In che modo abitudine e adattamento si scontrano con l’assuefazione

* Quando una guerra è veramente un pericolo

* Perché la guerra ci fa più male della pandemia

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Cosa è una abitudine e come si sviluppa

Un’abitudine si può definire come una risposta comportamentale automatica a uno stimolo che si sviluppa tramite ripetizione di un comportamento, in contesti coerenti tra loro.

Essa risponde all’esigenza di economizzare le risorse cognitive, affinché qualcosa accada in automatico. In genere un’abitudine si rivela tale quando il potere dell’intenzione si rivela fallace. Se c’è un’abitudine, prevale sulla forza di volontà.

Una abitudine può stimolare dei comportamenti funzionali e non per il benessere o il malessere.

Si attiva con l’ausilio di stimoli esterni, o interni, in cui entra in gioco una sorta di “pilota automatico” su cui influiscono luogo, ora, stato emotivo, persone circostanti, azioni compiute in precedenza.

Le successive gratificazioni che derivano dall’esercitare un’abitudine non fa altro se non rinforzare e cementificarla. Al limite, persino gli effetti nocivi e sgradevoli possono esercitare tale effetto, come, ad esempio, nel caso del sapore sgradevole in bocca che resta dopo il fumo di una sigaretta.

Affinché un’abitudine si instauri occorrono ripetizioni costanti per lunghi periodi, pare circa mediamente 66 giorni. Sospendere per un periodo il suo esercizio, o la sua esecuzione incompleta, in genere, non la scalfisce più di tanto.

Se, sul fronte positivo, è una modalità che può aiutare ad acquisire nuovi, sani comportamenti, grazie anche alle gratificazioni positive che ne possono derivare, su un piano negativo, può rivelarsi assai deleteria per noi stessi, gli altri, il mondo.

Quando la routine diventa abitudine

Ad eccezione dei cosiddetti “cercatori di sensazioni”, che vanno costantemente e ripetutamente alla ricerca di sensazioni, stimoli, emozioni sempre nuove ed eccitanti, che si annoiano e abituano facilmente a tutto, e in quanto tali conducono un’esistenza piuttosto sregolata, provvisoria, disordinata, la maggior parte di noi conduce un’esistenza almeno in parte programmata, organizzata, controllata, abitudinaria.

Scuola, lavoro, vita affettiva, gestione delle funzioni individuali, domestiche: piccoli e grandi rituali ci caratterizzano e scandiscono la nostra quotidianità, e, in parte ci rassicurano, confortano, rasserenano, in parte, a volte, ci vincolano, imprigionano, ostacolano la creatività, la spontaneità, la libertà.

Le abitudini ci offrono un baluardo di protezione dalle nostre ansie di cambiamento, imprevedibilità, incertezza, mancanza assoluta di controllo. Ci sostengono nel processo di soddisfazione dei nostri bisogni inconsci più profondi.

In questo senso abitudine e routine sono profondamente adattivi per una vita equilibrata e serena. Si formano fin dall’infanzia e contribuiscono a modellare il nostro carattere, i pensieri, i sentimenti, i comportamenti.

Se una abitudine diventa una patologia

Se, da un lato, le abitudini sono funzionali al nostro benessere e adattamento al mondo, dall’altro possono diventare una vera e propria fissazione. In questo caso entriamo nel fronte patologico. Questo si verifica quando un comportamento si ripete, entra in una sorta di stallo interiore, si lascia prendere da pensieri fissi, abitudini ineliminabili, che minano le relazioni sociali, la realizzazione di sé e la soddisfazione della vita.

L’attenzione si rivolge completamente al passato, si assiste ad una sorta di regressione psicologica e ci si ostina a non abbandonare delle modalità comportamentali, anche se si rivelano non valide razionalmente.

Come ci si adatta all’ambiente

Al contrario, ci si adatta all’ambiente quando si vivono dei processi grazie ai quali ci si adegua ad un ambiente fisico e sociale, modificando i propri schemi di comportamento – in questo caso si parla di adattamento passivo – o operando sull’ambiente stesso per trasformarlo in funzione delle proprie necessità – e in tal caso l’adattamento è attivo.

Non sono modalità alternative, ma processi integrati e interdipendenti che consentono un equilibrio con se stessi, gli altri, l’ambiente.

In questi casi si dovrebbe essere capaci anche di rinunciare alle proprie abitudini, pur comunque restando se stessi, unici, con una propria identità. Si tratta di essere flessibili, pur nel non perdere il proprio baricentro.

L’ostacolo principale all’adattamento è la forza di inerzia. Per superarla occorre imparare ad accettare e fronteggiare l’incertezza del cambiamento, apprendere, essere mobili ed elastici, modificando pensieri, schemi, comportamenti.

Altri meccanismi inconsci di difesa possono ostacolare il cambiamento e l’adattamento, per proteggerci da situazioni percepite come eccessive, minaccianti, interne ed esterne, per tenere lontano emozioni, sensazioni, pensieri dalla nostra consapevolezza, per preservarci dall’ansia, dall’angoscia, e creare una illusoria sicurezza.

Alcune difese, in ogni caso, sono sane e funzionali per la normale vita quotidiana, definiscono il carattere, la personalità. Diventano patologiche solo se si irrigidiscono eccessivamente e si rivelano inefficaci, rendono inflessibili, non adattati mentalmente.

In che modo abitudine e adattamento si scontrano con l’assuefazione

Abbiamo compreso da quanto detto finora che esistono dei meccanismi, consci e inconsci, che ci possono fare stare bene, adattare all’ambiente, alle relazioni, al lavoro, e altri, invece, che possono danneggiare la vita emotiva, psichica, fisica, sia nostra, sia di chi ci circonda.

Oggi più che mai siamo siamo immersi in un mondo veloce, ricco di stimolazioni, cambiamenti, informazioni, urgenza, fretta, richieste molteplici e mantenere un equilibrio, una lucidità, una serenità di fondo non è semplice.

Ciascuno reagisce e si difende come può.

Esistono dei meccanismi, però, che in parte ci accomunano.

Quando siamo esposti ripetutamente ad uno stimolo, come è accaduto con le notizie della pandemia, per due anni, e attualmente della guerra, la risposta progressivamente da parte nostra diminuisce.

Come accade per un farmaco, che nel tempo può necessitare di dosi sempre maggiori per esercitare il medesimo, iniziale effetto, anche la nostra psiche, le nostre emozioni e il nostro corpo aumentano la tolleranza, perdono di sensibilità.

E’ un meccanismo anche esso di adattamento, graduale, all’ambiente che cambia.

Anche la guerra, al limite, così come è stato per la pandemia, può diventare la nostra “nuova normalità”.

Durata, frequenza, intensità di stimolo, cambiamenti possono influenzare questo processo.

E’ un meccanismo che si esplica per lo più inconsapevolmente, accade con eventi, oggetti, vissuti, sentimenti. E’ un apprendimento implicito, inconscio. Contribuisce a ridurre l’attenzione all’ambiente, a liberare risorse cognitive, emotive, fisiche, energetiche. Gli stimoli diventano neutri, anche se di fondo si resta vigili, al punto tale che, in caso di pericolo, si può intervenire tempestivamente.

Si verifica quando si comprende e percepisce che, tutto sommato, messo da parte l’allarme iniziale, quello stimolo non è così minaccioso e deleterio, come all’inizio credevamo.

Quando una guerra è veramente un pericolo

Nelle ultime settimane abbiamo visto sui nostri schermi e carta stampata immagini sempre più devastanti, cruenti, spietate, che hanno suscitato reazioni mentali, cognitive, emotive e comportamentali di ogni sorta, secondo la nostra sensibilità e modalità.

All’inizio ci siamo preoccupati, angosciati, emozionati, siamo corsi a donare un sms solidale, abbiamo svuotato gli scaffali dei nostri supermercati, temendo che la carestia arrivasse anche da noi, abbiamo saccheggiato le farmacie con richieste di farmaci contro un possibile attacco radioattivo.

Abbiamo cercato, razionalmente, e ancora più irrazionalmente, di sopravvivere. Abbiamo sentito la nostra esistenza direttamente minacciata e ci si siamo difesi nei modi, tempi, luoghi che ritenevamo più plausibili.

In realtà, la percezione del rischio, anche se psicologicamente può variare a seconda della soggettività personale, consta anche di aspetti comuni a ciascun essere umano.

Fattori temporali, spaziali, sociali, ipotetici possono influenzarne la rilevazione. Questo induce ad attuare comportamenti coerenti, o che si ritengono tali, per affrontare il rischio. Spesso questo accade inconsapevolmente e automaticamente.

A volte ci preoccupiamo per situazioni che poi si rivelano innocue, mentre sottovalutiamo la portata di altre che invece sarebbero veramente da attenzionare e risolvere con cura e tempestività.

Se una guerra ci è molto vicina è chiaro che la minaccia per noi è cogente, concreta, manifesta. Se ci tocca con i suoi effetti diretti, come nel caso di aumento esponenziale del prezzo dei carburanti, dei generi alimentari, e di tutti gli altri beni essenziali ci sentiamo direttamente toccati e coinvolti.

Perché la guerra ci fa più male della pandemia

La nostra società proviene da un’usura emotiva, cognitiva, fisica di due anni di pandemia. Non ha ancora avuto il tempo di comprendere, elaborare, sedimentare, lasciare andare quanto accaduto in termini emotivi, mentali, fisici allora, e in quanto tale non è pronta ad affrontare un ulteriore trauma che non sa dove la condurrà, per quanto tempo, con quali reali effetti.

Siamo vulnerabili, ansiosi, preoccupati, in parte anche arrabbiati, indignati, oppositivi. Molti di noi rispondono alla guerra fuori, con altrettante guerre di opinioni, parole, vissuti, sentimenti, manifestazioni pubbliche. Molti altri restano in preda di demoralizzazione, tristezza, apatia, confusione, paura, incertezza.

Se è vero che la malattia fisica stimola, almeno potenzialmente, compassione, empatia, immedesimazione, vicinanza, i timori legati alla scarsa conoscenza di eventi non previsti, non controllabili, più grandi di noi, distanti, rende tutti più guardinghi, circospetti, diffidenti, tristi, angosciati, impotenti, rassegnati.

Il fatto che il tutto ci viene veicolato per lo più tramite degli schermi ci rende sempre più arduo distinguere la realtà dalla finzione.

Finché a che punto tutto questo è vicino, reale, minaccioso, concreto?

Se arriva un profugo con una ferita di guerra, se aumenta il costo della benzina, se si esaurisce il nostro cibo preferito al supermercato, tocchiamo con mano quello che sta accadendo e che ci comincia a riguardare sempre più da vicino e concretamente.

Questo ci spaventa, angoscia, inquieta.

Reagiamo come possiamo, per mantenere la lucidità, un minimo di equilibrio interiore, per noi, per i nostri cari. La nostra vita è qui e va avanti qui. Di questo siamo responsabili.

Siamo chiamati a creare la pace dentro, e di riflesso attorno, nel piccolo, e in contesti sempre più ampi, come illustrato ampiamente nella precedente puntata “I veri conflitti stanno dentro di noi” – https://etvmarche.it/07/03/2022/la-guerra-interiore-e-quella-fuori-da-noi-le-riflessioni-di-anna-fata-dalla-rubrica-lune-d-benessere-ottava-puntata/

Pena la assuefazione, la perdita di sensibilità, l’alienazione emotiva e cognitiva a quello che sta accadendo. Ed è più vicino di quanto crediamo. E’ prima di tutto e sopra tutto dentro dentro. E si riflette anche fuori. E lo stiamo cominciando a toccare con mano.

Occorre adattarsi all’ambiente, in modo attivo, o passivo, cambiando le cose, dentro e attorno a noi, per quanto possibile, oppure limitandoci ad accettare quello che non è in nostro potere mutare. Tutti in questo senso abbiamo una quota di responsabilità e potere verso noi stessi, gli altri, il mondo. Nessuno escluso.

E’ fondamentale riscoprire il proprio potere, le nostre possibilità in modo da non cadere nel baratro del vittimismo, della alienazione, dello straniamento, dell’egoismo, ma sentendoci parte di una comunità più ampia che, come stiamo vedendo, ha anche ripercussioni nazionali e mondiali”.